Il ROI dei progetti di marketing farmaceutico innovativo: senza alchimie

Il ROI non è fisica nucleare, non è alchimia, non c’è trasmutazione dell’atomo: se entrano soldi, soldi devono uscire. Se nei progetti di marketing in generale questo viene sempre ricordato, in quelli innovativi è necessario saper fissare gli obiettivi ed i benchmark.

La misurazione è spesso la chiave per rianalizzare il progetto per eventuali scale-up.  La definizione dei Key Performance Indicator, è l’occasione per verificare l’allineamento agli obiettivi strategici, la correttezza delle azioni. In particolare dalla nostra esperienza definire insieme gli obiettivi è l’occasione per concordare con il Cliente il livello di soddisfazione e sottoscrivere contrattualmente i premi.

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Nello spending review: generici vs branded?

Secondo quanto raccontano le cronache le cose sarebbero andate così: il governo, more solito, usa la sanità farmaceutica come un bancomat. Ma la lobby dei farmacisti, consapevole che non era possibile far fare marcia indietro all’Esecutivo, nel chiedere una contropartita al balzello, hanno puntato ad un aumento della quota del consumo di farmaci generici, col chiaro intento di  recuperare una parte delle perdite. Le notizie giornalistiche sono ballon d’essai: il medico può prescrivere solo il principio attivo, salvo rare eccezioni. La risposta però non si fa attendere: medici e industrie fanno pressione affinché il decreto cambi col risultato di ottenere una legge che inizialmente appare complessa da interpretare perché sembra  collidere con quanto annunciato. E per quanto riguarda l’effetto? Al momento ci segnalano:

– errori nei software di gestione dello studio medico. Le software house provando ad interpretare e anticipare hanno rilasciato modifiche che obbligavano i medici a scrivere solo principi attivi,

– riunioni di ciclo in cui il tema principale era l’interpretazione autentica della legge,

– acerrime discussioni su DottNet, il social network dei professionisti della sanità, tra medici e farmacisti.

A valle di questa legge l’elemento che resta certo è che il peso del medico, come detentore della prescrizione e del suo orientamento, è destinato ad accentuarsi nonostante i crescenti paletti.  Le numerose aziende di generici che, molto prima del “Decreto Abruzzo”, avevano abbandonato completamente l’informazione scientifica alla classe medica per orientare i propri investimenti esclusivamente sulla attività commerciale in farmacia, ora stanno rivalutando le proprie scelte. Il ruolo della distribuzione del farmaco è diventato crescente e nei piani di marketing va messa in evidenza la posizione e la collocazione che ha. E ciò non cozza con l’aumentata influenza del medico.

Per prevedere gli sviluppi, abbiamo provato a testare il sentiment di alcuni manager sia con competenza sul mercato dei generici che branded. L’opinione sembrerebbe sintetizzabile in pochi punti: si aprono dei varchi giuridici per la vera equivalenza dei prodotti tra originator e equivalente, con l’aumentare della quota di generico potrebbe essere possibile che le regioni creino delle gare al ribasso.

Sul primo punto, in effetti la bioequivalenza è stata spesso fatta all’estero con brand diversi da quelli in vendita in Italia, e prima del mutuo riconoscimento, questo comporterebbe, in linea di principio che l’ente autorizzativo Italiano dovrebbe redigere, come negli Stati Uniti, un “orange book” di equivalenza diretta.

Per il secondo punto, vista la volontà di contenere la spesa e visto che questa norma non agisce su questo fronte, le regioni potrebbero sentirsi autorizzate a fare delle gare regionali al ribasso nelle quali la azienda genericista che vince avrebbe un prezzo più basso e gli altri pagherebbero un “ticket”.

Cosa impedirà ad ogni azienda che ha prodotti branded di fare al proprio interno un equivalente a marchio generico e far presentare questo alla classe medica? Il ruolo del GP e del farmacista ne usciranno certamente mutati, anche per i diversi vincoli sia prescrittivi che nella vendita.

Il marketing farmaceutico si trova a maneggiare un mercato sempre più complesso, che non ha regole universali, che richiede per ogni area terapeutica e per ogni brand una riflessione ed una progettualità specifica. La complessità crescente della legislazione insieme con gli elementi incerti legati alle nuove modalità di comunicazione richiede di costruire all’interno dell’azienda nuove competenze, anche con l’innesto di expertice provenienti da altri settori, che siamo in grado di maneggiare contemporaneamente le nuove regole, le nuove tecnologie e le nuove strategie.

Le strategie devono prevedere una azione congiunta e coordinata con più canali su più target, con diverse modalità operative per prodotto ed area terapeutica; si è aperta una nuova fase, certamente  enigmatica e complessa, certamente più divertente.

Salvatore Ruggiero

Marketing vs. ufficio legale. Chi vince e chi perde

Gli uffici legali nelle imprese farmaceutiche hanno un ruolo fondamentale perché ne garantiscono il  loro corretto funzionamento. Molto spesso però possono rappresentare anche un freno all’innovazione.

In relazione ai compiti che ha un ufficio legale, recentemente mi sono trovato nella duplice veste di cliente e fornitore.

Da cliente di una banca mi sono imbattuto in un caso paradossale: il modulo che mi è stato sottoposto – messo a punto evidentemente dall’ufficio legale – era quanto meno stravagante, come si può notare dalla foto. Che ne dite, rientro tra i vivi o sono già nel mondo dei più mentre stipulo la polizza?

E’ possibile che vi sia una norma che preveda una dichiarazione del genere? C’è forse una legge che presume che non sia possibile stipulare una polizza a chi è già morto? E’ più probabile che chi ha steso la contrattualistica ha cercato di immaginare tutte le ipotesi e le varie fattispecie, ma il risultato, oltre ad essere ilare, non tutela ne il cliente ne la banca se si fa firmare un modulo così impostato. Tuttavia la dichiarazione è stata prevista visto che non costi aggiuntivi. Ma nel marketing non è così.

E veniamo al secondo caso, cioè nel mio ruolo di fornitore. Ho gestito contratti con diversi uffici legali, spesso impegnativi e faticosi, anche su temi poco rilevanti, ma nell’ultimo episodio avvenuto pochi giorni fa i legali di una multinazionale farmaceutica hanno dato l’autorizzazione all’outsourcing di attività “core” ad un mio competitor che non ne aveva i requisiti oggettivi. Naturalmente per effettuare le attività aziendali occorre possedere una serie di  competenze oggettive , tecniche, di compliance a leggi e questi stessi requisiti sono obbligatori per coloro che svolgono queste attività come outsourcer. Questo è ovvio anche perché, in caso contrario, l’azienda potrebbe spogliarsi di obblighi facendo outsorcing,  e ciò non è vero. La scelta del vendor deve essere assolutamente in linea con gli obblighi ed i requisiti che il contraente ha. Il marketing, dal canto suo, era consapevole che il fornitore non aveva i requisiti ma non ha voluto contrapporsi.

Nel marketing scegliere il fornitore di servizi, in particolare per quelli innovativi, è una attività chiave, e garantirsi che questi sono assolutamente in linea con la legge è il nodo iniziale. In questo contesto l’ufficio legale ha un ruolo di grande rilievo ma il marketing non ha saputo far valere le proprie ragioni.

Nei due casi, da cliente della banca e da fornitore ad un’azienda, mi sono trovato nel primo  a firmare un documento assolutamente inutile che non offriva garanzie alla banca, e nell’altro a non poter competere correttamente in quanto l’interpretazione dei requisiti da parte dell’ufficio legale era troppo dilatata. In entrambi i casi il marketing non ha interagito con l’ufficio legale, non ha fatto sentire le proprie ragioni, non ha tutelato il proprio cliente per ottenere  “il successo dell’iniziativa”.

Collaborare strettamente con l’ufficio legale può consentire al marketing non solo di chiarire alcuni punti di vista diversi, quanto piuttosto mettere l’accento sui temi che sono a cuore alla stessa funzione: la tempestività d’azione, la qualità del fornitore, la gestione della fase contrattuale, i passaggi chiave di interesse dell’azienda, le alee di rischiosità del progetto, i possibili errori, i limiti legislativi, le norme dubbie.

Nell’uso di modelli innovativi, nelle nuove modalità di contatto che il mondo oggi ci chiede questo risulta  ancora più vero, sia per tempestività di azione, che nella tutela dei rischi. L’e-detailing, ad esempio, è un progetto che può essere complesso, spesso viene seguito sia dall’ufficio legale che dal marketing: chi vince e chi perde?

Il modo più semplice ed inutile di tutelare l’azienda è non far agire: bloccare tutto ciò che è appena dubbio. Il modo più imbarazzante ed inefficace è non centrare i temi chiave, cioè assumere rischi che possono essere evitati.

L’ufficio legale non è tenuto a predisporre moduli, ma insieme al marketing trasformare i momenti di interazione con clienti e fornitori in opportunità. Il marketing non deve, a sua volta,  lamentarsi in silenzio, ma insieme all’ufficio legale ha l’obbligo di trovare tutte le soluzioni e le alternative per poter realizzare il progetto nel modo migliore.

Non è guerra, è cooperazione.

Salvatore Ruggiero

Lunga vita al brand

Molti di voi, suppongo tutti quelli che hanno superato gli “anta” ricorderanno la Philco, marchio di elettrodomestici diventato famoso negli Anni ’60 grazie ad una serie fortunata di carosello con Nino Manfredi.

Qui ne trovate un simpatico esempio: http://www.youtube.com/watch?v=3rYWoEeTjBE

Tuttavia, come è accaduto a tanti nomi famosi di quegli anni, dopo un susseguirsi di cessioni o di trasformazioni la Philco è di fatto scomparsa dal mercato da circa 20 anni. Passeggiando ho  trovato una vecchia insegna del glorioso marchio all’esterno di un negozio e ciò mi dà lo spunto per parlare del valore che possiede un brand.

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A seguito di merge and acquisition la gran parte delle Big Pharma si è trovata nel listino decine o addirittura centinai di brand tra etici, integratori, ospedalieri, con le relative formulazioni. Inoltre, per far fronte all’avanzata dei generici la gran parte delle case farmaceutiche  ha arricchito il proprio listino con divisioni di “generici a marchio”, combattendo così la guerra dell’equivalente sul suo stesso terreno. L’immediata conseguenza di questa politica è stata la contrazione degli investimenti sui farmaci maturi trattandoli tutti, indifferentemente, come cash cow, a volte senza un’analisi delle singole caratteristiche del medicinale e delle  dinamiche del mercato.

La logica contrazione delle vendite ha poi condannato  molti prodotti, il cui fatturato complessivo sarebbe stato invece per una piccola o media azienda una tigre da cavalcare, ad un ruolo marginale. Tra l’altro in diversi casi il marchio era conosciuto ma solo nelle singole nazioni dove era commercializzato, per cui, secondo le dinamiche di una grande multinazionale, questi farmaci erano considerati irrilevanti pur avendo fatturati anche di 5 milioni di euro, condannandoli così all’esaurimento per consunzione e quindi alla fine della produzione.

Questa insegna della Philco ci suggerisce quanto sia sbagliato questo atteggiamento:  il brand è prezioso e dura anche molto più dei manager. Ha un valore intrinseco duraturo che gli permette di superare le barriere del tempo e di continuare a vivere nel percepito del consumatore per anni. Inoltre il brand diventa parte integrante del proprio vissuto e può essere rivitalizzato con risultati economici brillanti. E’ necessario analizzarlo e comprendere i significati che porta con sé, studiarlo oltre il posizionamento che ha avuto in origine ma analizzarne l’attuale percepito e valorizzandone gli elementi distintivi.

I brand forti, secondo la mia piccola esperienza, hanno poi un gran dono: sono molto responsivi, “risuonano” se toccati opportunamente come un diapason ed emettono un suono chiaro e squillante. Il brand è vivo e produttivo e può sopravvivere all’eutanasia: lasciamoli vivere e fruttare.

E poi: avete notato gli altri marchi vicini a Philco? Singer e Permaflex, anche loro condannati ad una morte prematura.